Buongiorno!!!ANCORA GRANDI PROPOSTE GRAZIE AI VOSTRI CONTRIBUTI!!!l’ottima ricetta della pizza di Michela Bolognini, il meraviglioso tutorial per il mio pendente che non vedo l’ora di indossare fatto da Maria Cecilia Calabri, e un racconto di Beatrice, che ci trasporta in un viaggio alla ricerca di noi stessi.
Buona domenica!
Buon divertimento e…continuiamo a farci compagnia!!!
CACCIA AL SIMBOLO
DEL PROF. RICCARDO SPINELLI
Informazioni sul quadro di ieri: “Il ritorno di Cristoforo Colombo – Ferdinand-Victor-Eugène Delacroix”
Cambio quesito di oggi dell’opera sottostante: “raccontateci voi la scena”
rispondete numerosi….
e divertitevi con i commenti di ieri….
- 1 kg di farina (in questo caso io ho usato quella integrale)
- 1 cubetto di lievito
- 600mldi acqua
- 2 cucchiaini di sale
- 2 cucchiaini di zucchero
- Una tazzina di olio di oliva
SI scioglie il lievito nell’acqua insieme allo zucchero
Nella planetaria o in una ciotola capiente si mescola il sale nella farina
Fatto questo si versa piano piano l’acqua nella farina e si gira, ovviamente chi lo fa nella ciotala di può aiutare inizialmente con una forchetta.
Una volta versata tutta l’acqua si versa l’olio e si continua ad impastare fino a che non diventa una palla omogenea, ci si può aiutare con una spianatoia per impastare. Appena l’impasto è pronto lo rimettiamo nella ciotola a lievitare coprendo con un panno, l’impasto andrebbe fatto la mattina massimo primo pomeriggio e rimastato più volte.
C’è chi si prepara le palline da spianare io avendo poco spazio cani gatti e figlioli non riesco…. Perciò pesco dalla ciotola, infarino il banco di lavoro, spiano stendo condisco e inforno sempre perché io ho il fornetto della Ferrari, in alternativa forno prescaldato e via…. Il condimento è a vostro piacere. Se avete modo di provare e se piace, provare quella con la mortadella e pistacchio.
(base, mozzarella e sale, si mette a cuocere, una volta cotta si mette della mortadella, stracciatella e granella di pistacchio)
PREAMBOLO
Il traghettatore é un mestiere antico, solitario: uno ad uno li scorta, attraverso la notte fino all’alba, alla riva dall’altro lato. Indica la sponda, d’un fiato spinge a terra il passeggero nel suo primo passo di viaggio. Non scende mai, non accompagna, mostra solo la strada a chi già la conosce, ma non poteva vederla, dall’opposto lato. Nella traversata ascolta le storie di chi chiede un passaggio, le illusioni, i pianti, il miraggio che si cela negli occhi di ciascuno, così da comprendere dove portarli. È un mestiere che si sceglie prima del primo vagito, non capita per caso: bisogna conoscere l’acqua, le correnti, capirne i segreti, i mutamenti. Chi traghetta, a terra, non ha nessuno, sul suolo duro il suo passo vacilla, abituato com’é al rollio costante. Sua consolazione é il contatto di una notte con l’anima amante, che, all’alba, riconsegna al suo viaggio, in un ciclo costante. Il traghettatore ha scelto l’istante.
B. B.
IL TRAGHETTATORE
Una notte un viaggiatore, stanco e infreddolito, dopo un lungo vagare si trovò a passare per un bosco. Camminando con fatica tra foglie e radici, avvolto dal profumo di funghi e umidità, scorse in lontananza il bagliore di un fuoco. Attratto dalla promessa di un po’ di calore che quella luce emanava decise di avvicinarsi. Arrivò a una radura incastonata tra gli alberi, al centro di essa ardeva un piccolo fuoco scoppiettante e, su di esso, era posta una marmitta di stufato che si cuoceva lentamente, un odore allettante si muoveva nell’aria in spire tonde che curvavano lentamente intorno al viaggiatore. Seduto davanti alla fiamma stava un uomo anziano, la lunga barba bianca gli incastonava il viso rugoso sul quale la luce del fuoco proiettava mille ombre e riflessi, in mano teneva un piccolo bastoncino col quale ravvivava le braci perche non si spengessero.
Lentamente il viaggiatore si avvicino titubante e il vecchio con un gesto della mano lo invitò a sedersi accanto al calore del fuoco. Silenziosamente riempì una ciotola con lo stufato profumato e la porse al viandante perche potesse rifocillarsi. Con gratitudine il pellegrino si sazio e si scaldo le stanche membra mentre il vecchio sembrava perso nell’osservare le scintille che salivano dal fuoco, poi d’improvviso, con una voce vecchia come il mondo l’anziano parlò.
“Cosa stai facendo straniero?”
“Sono in viaggio” disse il vagante, grato finalmente che si fosse rotto il silenzio che cominciava a opprimerlo.
“E dove sei diretto?”
“Non so, sto cercando.”
“E che cosa cerchi?”
“Cerco me stesso, mi sono perso e non riesco a trovarmi.”
“E perché pensi di doverti trovare?”
“Per darmi un senso, un nome, per potermi finalmente fermare.”
“Credi sia questo il bisogno che hai?”
Il viaggiatore rimase scioccato da queste domande.
“Vecchio, abbiamo tutti un nome, un posto che chiamiamo casa e io , come ogni altro, cerco il mio”
Il vecchio fece un largo sorriso “Non ti trovare visitatore, perditi, smetti di cercare, smetti di preoccuparti di trovarti, perditi. Credi che sia un nome, un posto a dirti chi sei? Credi di aver un volto un colore, credi siano i tuoi i piedi con cui cammini nel mondo? Credi siano tuoi gli occhi con cui mi guardi, la bocca con cui ti nutri?”
Sconcertato il viaggiatore si indigno “Ma certo e di chi altri dovrebbero essere se non i miei?”
“Sono te: il tuo volto, i tuoi piedi, i tuoi occhi la tua bocca? Senza di essi non saresti più tu? Saresti diverso se lo fossero loro?”.
“Vecchio sei stato gentile a ospitarmi al tuo fuoco, ma non ti comprendo, i boschi ti devono aver privato della ragione, io adesso devo riprendere il mio cammino.”
Il vecchio sorrise e sembrò non curarsi affatto delle parole del viaggiatore.
“Segui il sentiero, ti porterà sulle sponde di un lago, li troverai una barca per traghettarti sulla sponda opposta, bada che il traghettatore vorrà essere pagato. Egli non accetta monete ma da te vorrà una storia e se questa gli piacerà avrai un passaggio sicuro per la riva opposta.”
Il viaggiatore ringrazio e guardò pe l’ultima volta la figura canuta accucciata davanti al fuoco dal viso rugoso sereno e saggio. “Che strano” penso “da dov’è sbucato quest’ uomo?” Ringrazio e si avvio lungo il sentiero che gli aveva indicato. Mentre si perdeva pian piano nel fitto del bosco il vecchio lo osservava con un sorriso clemente che gli si allargava sul volto.
Sempre più perplesso il pellegrino si avvio per il sentiero pensando che la solitudine doveva certo aver fatto impazzire il vecchio e che ciò era un vero peccato perché la bontà in lui era grande.
Il viaggiatore si avventurò nel bosco per un lungo tratto, immerso nelle foglie e guidato appena dal leggero chiarore del sentiero che si snodava tra gli alberi. Intanto la notte calava sempre più buia intorno a lui, tanto che spesso temette di perdersi e smarrire il sentiero. Dopo un tempo infinito scorse un bagliore davanti a se e, dopo pochi passi cominciò a vedere, tra il fogliame che si diradava, il bagliore di un immenso lago che scintillava sotto di lui colpito dai raggi della luna. Si fece sulla riva per dare uno sguardo d’intoro, non riuscì a scorgere la riva opposta perche una nebbia lontana ne impediva la vista, il lago era così vasto da non vederne la fine, avrebbe potuto benissimo trattarsi di un oceano intero per quanto ne sapeva. Del traghettatore nessuna traccia, forse il vecchio aveva mentito, o forse lo aveva semplicemente preso in giro, in fondo non sembrava tanto sano di mente. Non sapendo che fare si sedette sulla riva in attesa che passasse la notte sconfortato dal freddo che cominciava a sentire.
D’improvviso dalla nebbia sbuco un imbarcazione lunga e sottile che tagliava silenziosamente le acque del lago senza produrre nessun suono particolare, scivolava sull’acqua senza sforzo. Al timone stava una figura alta e slanciata coperta da un mantello scuro e pesante che evitava che l’umidità del lago si insinuasse sotto di lui, persino il capo era coperto da un pesante cappuccio e il volto ne rimaneva celato. Spingeva l’imbarcazione con un lungo remo di legno bianco argenteo che increspava appena la superficie. L’imbarcazione guadagno la riva velocemente e il viaggiatore gli si fece d’appresso felice di non dover passare la notte solo sulle sponde del lago al freddo.
“Buona sera, avrei bisogno di un passaggio sulla riva opposta gentile barcaiolo, so che l’ora è tarda ma ti sarei veramente debitore se me la concedessi”. Il traghettatore tirò fuori da sotto il mantello una lunga e delicata mano candida, assolutamente inadatta a quel mestiere, notò il viaggiatore, e gli indicò un posto a sedere dinnanzi a lui, sul quale era posato un mantello simile al suo. Il pellegrino si accomodò grato di potersi riparare cosi dal freddo. Notò però che la figura non accennava a voler intraprendere la traversata cosi si ricordò le parole del vecchio nel bosco. “Perdona la mia maleducazione, mi sono accorto adesso che un tale servigio richiede un pagamento, mi è stato detto da un vecchio che incontrai nel bosco, che non accetti soldi in compenso ma invece chiedi in cambio una storia da parte di chi porti è vero?” L’alta figura incappucciata annui lentamente. “E sia, ti racconterò allora una storia in cambio del passaggio a nuova sponda.” Così il traghettatore, con una spinta decisa del sottile remo fece staccare l’imbarcazione dalla riva con il suo carico a bordo e cominciò la traversata. Il viaggiatore prese posto comodamente e inizio il racconto.
LA FORTEZZA NEL DESERTO
Durante un viaggio, mi ritrovai a vagare per un deserto desolato di terra brulla. Dopo giorni e giorni di duro cammino sotto un sole impietoso vidi stagliarsi davanti a me una montagna imponente le cui merlature si perdevano verso l’orizzonte, come un immenso muro a sbarrarmi il cammino. Sperai in cuor mio di trovare passaggio tra quei picchi bruciati dal sole invece di dover affrontare un ardua scalata e, stanco mi avvicinai alle pendici. L’aria ondeggiava liquida intorno a me quando arrivai nei pressi del massiccio imponente, mi guardai intorno alla ricerca di un anfratto ombroso dove rifugiarmi. Con mio sbalordimento vidi, nascosto nella parete di roccia, un ingresso scolpito nella pietra, le finestre delle torri consumate dal vento sembravano bocche spalancate verso di me. Sul frontone campeggiava una scritta “עמק הירח (valle della luna)”.
Spinsi le pesanti porte ed entrai. Attraversai il varco e, fortunatamente trovai delle torce oltre l’ingresso, percorsi un buio cunicolo che serpeggiava nel ventre della montagna. Mi sembrò di camminare per un tempo lunghissimo in quel buio opprimente, ed effettivamente quando uscii mi accorsi che era calata la notte. La luna si stagliava alta nel cielo illuminando del suo tetro bagliore, una vallata circondata dal massiccio roccioso, racchiusa come in uno scrigno, sagome nere di alberi scheletrici riempivano la vasta conca e, nel mezzo ad essi, sotto i rami protesi si snodava un sentiero che si perdeva nel buio. Nella speranza di trovare una fonte o un pozzo comincia a seguirlo con passi incerti, non si avvertiva un alito di vento, la roccia ne impediva il passaggio e gli odori di decomposizione della macchia boscosa ristagnavano nell’aria pesante. Mi inoltrai tra gli alberi per un tratto, improvvisamente sentii un suono, un clangore di metallo che sbatteva, che veniva trascinato e un battere ritmico di passi potenti sul terreno. Spaventato mi nascosi dietro un troco, dalla macchia sbucò sul sentiero una creatura che, ad un primo sguardo, appariva come un superbo destriero, ma certo non lo era: al posto degli zoccoli aveva artigli di rapace acuminati che piantava con forza nel terreno lasciando lunghi solchi a ogni falcata, il corpo era ricoperto di grosse squame lucenti ai raggi lunari. La coda e la criniera erano di fiamma viva e guizzavano dietro di lui, il capo affilato culminava in due corna aguzze svettanti verso l’alto. Il rumore metallico derivava dal fatto che la creatura trascinava, fissati con pesanti anelli intorno a collo e zampe, pesanti catene arrugginite che sbattevano tra loro e gli rendevano faticoso l’incedere.
Si fermò sul sentiero per riprendere fiato, mi sfuggi un gemito e la creatura si accorse di me e mi fissò sollevando fieramente la testa. Non pareva minaccioso a parte l’aspetto inquietante: si limitava a osservarmi con i suoi neri occhi profondi. Uscii da dietro il tronco lentamente, protendendo una mano, avevo pena di quella strana e meravigliosa creatura che era costretta sotto un tale peso e la mia intenzione era quella di liberarla. Mi feci vicino, ma la creatura emise un cupo ruggito sollevando la testa e battendo forte al suolo le poderose zampe. Pareva quasi offesa dal fatto che mi fossi permesso anche solo di pensare che si sarebbe mai fatta toccare da me, si giro, alzando su di me una densa nuvola di polvere e sparì lungo il sentiero. Dopo un po’, quando mi fui ripreso dall’incontro inaspettato ripresi il mio cammino dietro i suoi passi. Arrivai ad una radura che si apriva sulle sponde di uno stagno nero alla luce notturna, li la creatura incatenata stava, al limitare della riva guardando il suo riflesso fiammeggiante sulla superfice scura. Sentii dei suoni strozzati provenire da una zona poco illuminata al limitare della radura, guardai e vidi una donna sdraiata nella polvere. Non la vedevo chiaramente nel buio, ma era nuda, il bagliore della pelle candida lampeggiava di tanto in tanto, quando un raggio lunare la colpiva, ed era gravida. Il suo corpo si contraeva e inarcava al ritmo dei gemiti sempre più ravvicinati, stava partorendo. Allarmato mi avvicinai per prestarle cure e soccorso, mi levai il mantello per coprirla e la illuminai con la torcia rimanendo inorridito. Alla luce delle fiamme la creatura voltò il lungo collo nella mia direzione digrignando le orride zanne appuntite, l’orrido musi da rettile ruggì nella mia direzione sguainando lunghi artigli ricurvi e minacciosi, fece saettare nell’aria l’orrida lunga coda ricoperta di punte taglienti.
Si afferrò l’enorme addome rigonfio con gli artigli in preda a un altro spasmo ed emise un grido stridente e acuto che mi ferì le orecchie. In un fiotto nero diede alla luce un orrido neonato gorgogliante che si agitava sul terreno polveroso. La creatura non lo guardò nemmeno e lo lascio li, abbandonato e lordo di sangue e terra, si alzo e si diresse verso la sponda del lago. Si avvicinò alla creatura incatenata e comincio a strusciarcisi lasciva, facendo scorrere gli artigli sulle squame lucenti del possente dorso e arrotolando il lungo collo intorno a quello dell’altro che rimase comunque impassibile a osservarsi nella superfice scura.
Dal limitare opposto comparvero altre due creature simili a quella appena nata che stava morendo nella polvere, squame affilate percorrevano tutto il loro dorso, sul capo da rettile svettavano lunghe corna dritte e aguzze e, dalle fauci ansimanti uscivano lunghe zanne ricurve e le lunghe code a punta sferzavano l’aria. I due animali emisero bassi richiami verso la creatura femminea sulla riva del lago, questa gli ignorò stringendosi più forte attorno al cavallo fiammeggiante. Una delle due creature mosse qualche passo nella sua direzione, ma l’altra, mostrando le zanne, gli sbarrò la strada. Le due possenti creature cominciarono a lottare tra di loro per il favore della orrida femmina che se ne compiaceva. Cercai di salvare il neonato nella polvere dal delirio della lotta ma fini schiacciato dai possenti stillobati, persino io venni ferito a un braccio dalla tagliente coda di uno di loro. Si avventarono l’una sull’altra tagliandosi con gli zoccoli caprini e affondando le zanne nelle carni dell’avversario, strappandosi pezzi sanguinanti di carne in orridi brandelli che finivano a formare pozze di sangue scuro in tutta la radura. Corna spezzate, graffi orripilanti e profondi, mischiati a nuvole di polvere.
Terrorizzato abbandonai in fretta la radura e proseguii lungo il sentiero che girava intorno allo stagno. Percorsi un buon tratto prima di riprendere il pieno controllo di me stesso e del mio respiro, ma in che posto ero capitato, non avevo mai sentito parlare di simili creature, al massimo avevo udito in gioventù qualche favola su draghi alati e principesse nelle torri, ma mai avrei potuto immaginare l’esistenza di simili orride creature in un luogo tanto lugubre. Mentre cosi ragionavo scorsi, in lontananza un bagliore. Molto in ansia mi avvicinai e vidi che i riflessi erano raggi di luce che rimbalzavano su un enorme cumulo di monete dorate abbandonato sulla sponda. Un immensa cascata dorata che luccicava nella notte, ero tentato di avvicinarmi ma qualcosa mi trattenne e preferii rimanere in attesa nascosto tra la vegetazione. Menomale, perche dopo qualche minuto sentii uno sciacquettio, un gorgoglio e, dalle acque della riva cominciarono a spuntare lunghi tentacoli aggrovigliati e contorti che si agguantarono con le enormi viscide ventose al terreno della riva trascinando faticosamente fuori dal nero stagno il corpo del mostro nascosto. Un enorme teschio immondo dalle orbite vuote, circondato da immondi tentacoli guizzanti sorse dallo stagno, le zanne incrostate dalle alghe brillarono umide nelle enormi fauci della creatura e un fetore di morte putrida invase l’aria togliendomi il fiato.
Lentamente si trascino sulla montagna di monete scintillanti creando piccole cascate di luce mentre i tentacoli serpeggiavano tra le dorate pepite, si accomodò sulla sommità emettendo cupi grugniti di soddisfazione mentre affondava le membra nel freddo metallo. Uscii dal nascondiglio avvicinandomi e brandendo la torcia fiammeggiante innanzi a me, il polipo sembrò spaventato dalla fiamma e si ritrasse gemendo, non abbandono però la catasta di monete e vi affondò più profondamente i tentacoli. Provai una pena immensa per l’orrido mostro che uggiolava dalla paura di separarsi dall’oro sotto di lui e così velocemente mi girai e, in silenzio mi allontanai lungo il sentiero buio che si inoltrava fra gli alberi. Comminai fino a raggiungere la sommità di un piccolo rilievo del terreno e guardai in basso sotto di me in cerca di un uscita da quella pericolosa e tetra valle. Sotto di me si apriva un largo e circolare avvallamento del terreno spoglio e, nel suo centro, si apriva una largo pozzo scuro e minaccioso che sembrava immensamente profondo. Sul terreno intorno ad esso, via via che i miei occhi si adattavano alla luce della notte, scorsi una grande quantità di figure brulicanti nella polvere. Carponi si trascinavano nella terra polverosa e brulla, senza una meta precisa, come un nido di vermi quando si solleva una pietra umida. I loro corpi umani erano orribili da guardare, la carne vi si scioglieva come cera su una fiamma gocciolando giù dalle forme, lasciando scoperti i teschi e le ossa qua e là e seminando pozze dai terribili miasmi, cadevano e si ritrascinavano in un movimento lento e continuo intorno al nero pozzo.
Un boato immenso salì dalle viscere del pozzo facendo tremare l’intera valle riecheggiando tra le pareti di pietra, qualcosa stava risalendo dalla voragine, qualcosa di enorme e affamato. Urlai alle creature di scappare, di alzarsi e fuggire, ma parvero non sentirmi nemmeno continuando a trascinarsi sul suolo. Dalle viscere dell’orrido buco sorsero lentamente quattro enormi braccia ossute e squamose che conficcarono gli artigli nel terreno per issare la creatura verso la superfice. Dall’oscurità sbucarono delle enormi fauci bavose spalancate e ne usci un enorme lingua lunga e appuntita ne rotolò fuori facendosi strada sul terreno e assaggiando l’aria. Le grinfie sudice e aguzze cominciarono a tastare il terreno che circondava il pozzo cercando ansiose a tentoni, palpando, frugando con foga e solcando la terra. Trovo con facilità le creature che arrancavano tra la polvere, ne afferrò una che si contorse senza speranza nella stretta che lo attanagliava, velocemente la portò dentro le orride fauci masticandone ingordo le carni disciolte, preso dalla frenesia del pasto ne afferrò una dopo l’altra masticandole con ingordigia in un orrido rumore di ossa spezzate.
Dovetti distogliere lo sguardo dalla macabra scena di quelle creature inermi che venivano divorate una dopo l’altra, avidamente, mentre si contorcevano cercando scampo invano, senza le forze per reagire. Sul promontorio dove mi trovavo erano accumulati molti detriti e rocce, una particolarmente grande sporgeva in bilico sull’orlo della conca, mi avvicinai e cominciai a spingere il greve masso con tutta la forza e la determinazione che possedevo urlando per lo sforzo. La pietra sembrava inamovibile ma poi vacillò e cadde rotolando nella conca sottostante. Diverse creature striscianti furono schiacciate al suo travolgente passaggio, poi il masso arrivo al pozzo e ne blocco l’apertura infernale, una delle mostruose braccia della creatura rimase incastrata tra il masso e il bordo dell’apertura, fu percorsa da forti spasmi per poi ricadere inerte sul terreno. La pietra però vibrava colpita dal basso dalla creatura che, sicuramente sarebbe riuscita prima o poi a liberarsi.
Continuai a seguire il sentiero cominciando a disperare di trovare scampo in quella notte interminabile. Vidi però, in lontananza, la parete rocciosa e comincia a correre disperatamente per raggiungerla inciampando nel terreno disconnesso. Il sentiero costeggiava per un tratto la parete rocciosa e, incastonata nella pietra scorsi una grotta scura chiusa da pesanti sbarre di metallo grezzo segnate da solchi e screpolature, dietro di esse l’oscurità più cupa, sentivo però in quell’oscurità il respiro pesante di un grosso animale addormentato. Presi un ciottolo e lo scagliai attraverso le sbarre colpendo qualcosa con un suono ovattato e repentinamente la creatura si destò scagliandosi contro le sbarre e facendo vibrare l’intera parete di roccia. Era enorme, potevo vedere solo il muso e l’immensa bocca che addentava furiosamente le sbarre, gocciolante di bava, da cui uscivano fiamme saettanti che avvolgevano il metallo e due enormi occhi fiammeggianti e verticali che mi fissavano con un odio immenso.
La creatura mordeva le sbarre folle di frustrazione per non riuscire a liberarsi e colmare la distanza che mi teneva al sicuro allora fra le sbarre spuntarono lunghe dita ossute culminate da pesanti artigli affilati, non me lo aspettavo e ero quasi abbastanza vicino da poterne essere trafitto, per un pelo non fui dilaniato. Le urla e il ringhio della creatura riempivano l’aria, il suo sguardo folle e ipnotico mi fissava senza distogliersi mai, chissà da quanto era rinchiusa, mi dispiacque per lei e per la sua condizione. Mi sedetti su una roccia fuori portata degli artigli e comincia a cantare un antica canzone, lenta e melodiosa, dolce e appassionata, così il mostro si calmo e, lentamente tornò ad assopirsi., mi avvicinai e carezzai con le dita il muso della creaturae continuai il mio cammino. Il sentiero proseguiva contro la parete di roccia verticale fino a quando incontrai un enorme porta incastonata nella roccia. La incorniciavano due enormi archi screpolati dal tempo, sulla sommità del primo campeggiava una scritta צדק (giustizia) e sull’arco piu interno un basso rilievo di una fiamma ardente. Sul portone di legno pesante si stagliava una decorazione in argento raffigurante due spade incrociate sormontate da una bilancia.
Non avevo idea di come aprirla, sembrava che nessuno lo avesse fatto da secoli, provai a spingere, tirare con tutta la forza che avevo, cercai un pulsante una leva nascosta che magari attivasse un meccanismo ma nulla valse, la porta rimase serrata. Perse le speranze mi avvicinai all’invalicabile uscio e posai il capo sul simbolo centrale, una croce inscritta in un cerchio, posai le due mani sul metallo dei piatti della bilancia e chiusi gli occhi. Ripensai a quanto dolore e quanta pena avevo visto attraversando quella strana valle e a quanto vana fosse. Piansi per le povere creature che vi dimoravano. Improvvisamente con uno scricchiolio senti la porta vibrare e poi muoversi sui cardini e la luce del sole filtro sempre piu intensa dall’apertura che si stava allargando abbagliandomi. Quando i miei occhi si abituarono attraversai la soglia vidi distendersi davanti a me un palmeto rigoglioso: le grandi foglie frusciavano nel vento ombreggiando piacevolmente il sentiero, dai rami pendevano succosi datteri maturi, il terreno fertile e ricco era morbido e ricoperto di tenera erba vere. Mi sdraia a riposare un attimo dopo l’arduo cammino, mi rifocillai dei frutti offerti dalla natura. L’aria era pura e tersa, tutto era in armonia, in perfetto equilibrio.
Recuperate le energie e la serenità mi incamminai piacevolmente per il sentiero che serpeggiava tra le palme. Sperduta tra gli alberi era nascosta una radura rigogliosa: li vi era una sorgente d’acqua a cui mi dissetai con soddisfazione recuperando immediatamente vigore e coraggio, formava un piccolo stagno intorno al quale crescevano rigogliose piante e fiori profumati di ogni genere. In quella radura, scavata nella terra bruna, era nascosta un antichissima costruzione, ormai il ricordo di chi l’ha realizzata era perso nel tempo ma le sue mani sapienti avevano modellato un edificio unico, una fortezza sepolta nella terra del tempo. L’edificio, completamente nascosto nel terreno, si distingueva solo osservando dall’alto: una gigantesca croce greca di pietra su cui crescevano erba e muschio, liane pendevano nel baratro ai lati della croce verso la fresca oscurità che ne circondava le fondamenta.
Per raggiungere l’ingresso bisognava percorrere una strettissima scala scavata che le girava tutta intorno, la terra la abbracciava senza toccarla e, scendendo, mostrava i suoi anni strato dopo strato, colore dopo colore a seconda dei metalli e dei depositi che conteneva. Da un lato scendeva una piccola cascata il cui suono echeggiava tra le strette pareti insieme con la canzone del vento che vi rimaneva intrappolato, creando una melodia, come se la terra stessa stesse respirando. Una volta giunto sul fondo, metri più in basso potei ammirare la facciata di pietra della fortezza le cui poche finestre ad arco parevano occhi spalancati verso di me, come stupiti di vedermi in quel luogo sconosciuto mentre i raggi del sole entravano ovattati a far brillare le vecchie pietre. Un arco decorato mi invita a entrare, tutto ornato con strane figure di animali alati, pesci squamosi, alberi, foglie e montagne. Un portone pesante di un legno scuro proveniente da lontano era il passaggio per l’interno: incise sui battenti strane rune
דלת האור (porta della luce)
Si ripetevano su tutta la superficie in modo circolare, solcando il nero e lucido legno. Aprendolo entrai in una sala rotonda col pavimento di onice color del miele e al centro di esso in pietra nera tre spirali concentriche unite brillavano nella luce che scendeva dall’alto da un apertura sulla sommità e dalle elevate finestre ad arco.
Tra essi, in piccoli solchi della pietra nera scorreva l’acqua proveniente dalla cascata esterna. Sul salone si aprivano tre porte Sulla sommità di ogniuna campeggiavano rune simili a quelle della porta d’ingresso
ארץ של תקווה (terra della speranza) רוח האמונה (vento della fede) אש של צדקה (fuoco della carità)
Il suono dei miei passi riecheggiò nel salone dalle altissime pareti, intimorito avanzai fino al centro del salone, le pareti decorate con mosaici di pietre scintillanti risplendevano riflettendosi nei rivoli d’acqua ai miei piedi. Davanti a me le tre porte nere ornate da volute argentate. Entrai nella prima, ארץ של תקווה, spingendo la porta sui pesanti cardini, solcando la polvere del pavimento. Davanti a me un giardino silenzioso, tutto era immobile: i boccioli fermi sui rami in attesa di sbocciare, i germogli, ogni singola foglia, nulla aveva movimento, tutto era in attesa. L’intera stanza pareva trattenere il respiro, come bloccata nel tempo, le liane e i rampicanti pendevano inerti dai muri di pietra. Nel centro della stanza stava l’albero più maestoso e ammaliante avessi mai visto: le radici scavavano profondamente nel terreno scuro. Il tronco sinuoso, che si protendeva verso l’alto pareva, ai miei occhi, in tutto e per tutto, il corpo di una donna, voluttuoso, materno e accogliente, le fronde intrecciate ne erano chioma sinuosa e inestricabile, che si mescolava intorno e sulla figura, erano carichi di boccioli protesi nell’attesa di schiudersi, liane pendevano dai rami come a farle da mantello, le foglie lucenti luccicavano alla luce. Anche il viso, nelle venature di legno, tra i nodi, sembrava proteso, in attesa, gli occhi della creatura erano chiusi. Tutto era immobile ma si percepiva fortissima, la tensione, l’aspettativa di qualcosa che stava per arrivare alla vita, l’attesa di una nascita, di un piacere travolgente, di una felicità estatica. Tutto era proteso verso la vita che attendeva di erompere fuori da se stessa, persino gli odori indugiavano delicatissimi nell’aria.
Con dita tremanti sfiorai il legno bruno, ruvido sotto le dita, serpeggiante di venature: era caldo, lo sentivo vibrare sotto le mie mani, sentivo la tensione scorrere nel tronco, linfa che scorreva vorticosa sotto la superfice, carica di nutrimento. Mi mancò il fiato, cominciai a fremere anch’io, dentro nel mio intero profondo, un senso di mancanza che sta per colmarsi, come se stessi aspettando l’arrivo della persona amata, il ritorno di un figlio, l’arrivo della pioggia dopo la siccità. Era troppo forte, dovetti staccare le dita dalla corteccia e, barcollante feci qualche passo indietro: troppa speranza può ferire il cuore fragile di un uomo, noi che abbiamo sempre paura che sia vana. Usci lentamente, voltandomi per vedere se la figura si fosse mosse, anelando lo facesse, ponesse fine all’attesa, arrivato alla porta usci e la chiusi.
Mi avvicinai alla seconda porta, רוח האמונה e entrai con circospezione. La stanza aveva le stesse dimensioni della precedente e sembrava assolutamente vuota ad eccezione del vento, una corrente d’aria scostante rimbalzava tra le pareti, con refoli delicati alternati a raffiche piu forti, turbinava, girava, serpeggiava in ogni angolo e fessura, formando piccoli gorghi e correnti alte e basse, ascendenti e discendenti, che si intrecciavano tra di loro. Soffiando tra le pareti in tal maniera, creavano un suono ipnotico, quasi una canzone ovattata e frusciante. La stanza era vuota ma la presenza era densa, totale, aumentata dalla melodia e quel vento, cosi forte e potente. Ebbi un fremito e, dai miei vestiti, si alzo una nuvola di polvere che avevo accumulata nel mio viaggio. La polvere fluttuo nell‘aria, portata dal vento e, con mio sommo sbigottimento, cominciai a vedere la presenza, oltre che avvertirne solo la forza. La polvere andò a formare qualcosa di indefinito che si muoveva per la stanza, via via acquistando più nitidezza e potei scorgere una figura che danzava sospesa, guidata da quel suono incessante che lui stesso produceva: un ballerino di vento, saltava e piroettava stendendo le lunghe braccia, saltando da parete a parete intorno a me, perso nella bellezza della danza.
D’improvviso fermòi suoi passo, i suoi occhi trasparenti e turbinosi fissarono i miei per un momento che parve eterno, poi, in un attimo, si lanciò su di me investendomi con refoli potenti, mi si fecero intorno avvolgendomi. Fu come venir accarezzato da migliaia di mani di seta su ogni centimetro di pelle. Mi prese e mi sollevò mentre mi ruotava intorno e attraverso. Diventai lui, diventò me, corpo e sostanza. Mi invase una forza tenace e calma, potente, una libertà infinita, fiducia nella vita e in me stesso, un energia inesauribile. Sentì che nessun luogo mi era precluso, nessuna sfida, avrei potuto viaggiare sfiorando ogni terra, ogni gente, ascoltare ogni suono, ogni odore si sarebbe lasciato respirare docile al mio passaggio. Sentì la consapevolezza prepotente, la fiducia di appartenere a quel vasto mondo che mi si offriva generoso, di esserne centro pulsante. Avrei potuto librarmi alto tra le piume degli uccelli per poi correre tra i rami di foreste intricate, giù per cascate turbinose fino agli angoli più remoti e sconosciuti. Avrei potuto scegliere ogni strada, ogni luogo, con la mia forza avrei plasmato la terra sotto di me, sollevato il mare sbattendolo contro gli scogli irti, portare via il fiato da mille bocche, portare sospiri e parole. In tutto questo però sentì la solitudine di quella creatura, che apparteneva a tutto ma a cui non apparteneva niente, o ero io, ma forse entrambi, poco importa. Un mesto infinito desiderio di portare qualcosa con se in questo vagare senza fine, un bisogno di essere compreso, abbracciato come lui abbracciava, tenuto, contenuto e liberato, sfidato e amato. Fame di qualcosa diversamente uguale da se che lo riempisse di senso.
Volteggiando tra le pareti uscimmo dalla stanza fino a raggiungere la terza porta, אש של צדקה, la spalancammo con foga, tanto da far sbattere le ante massicce contro le pareti di pietra, producendo un boato che riecheggiò facendo tremare la fortezza intera. Ci fermammo sulla soglia a osservare: tutto era fermo, alle pareti torce spente appese qua e la. Nel centro della stanza, solitario, troneggiava un altare di pietra nera, semplice, liscio, senza una crepa o una scalfittura, intatto. Su di esso era distesa la statua di una donna addormentata, fatta della stessa pietra nera, tanto che sembrava uscire dalla spessa lastra. A occhi chiusi, i capelli di pietra si spandevano intorno al viso immobile, un braccio pendeva oltre il bordo scuro, come abbandonato nella morbidezza del sonno. Cosi realistica che quasi si poteva immaginare il suo petto sollevato dal respiro delicato. Lo spirito in me fu pervaso da u emozione profonda che fece salire le lacrime ai miei occhi, una tenerezza nostalgica, dilagante mi riempì strappandomi il respiro. Serpeggiando per la stanza il mio portatore guizzò verso di lei seminando piccoli riccioli di vento nella polvere. Ci trovammo sospesi su di lei fissandola in volto, delicatamente le sfiorammo sul viso, soffiammo su di lei, in lei e attraverso come dovessimo comandare alla pietra scura di respirare. Tutte le torce appese divamparono in un istante creando costellazioni di luci nella stanza scura, divampando con lingue aguzze. Sul corpo della donna cominciarono ad aprirsi innumerevoli crepe ardenti da cui scaturiva un immenso calore benefico che la avvolse. I suoi occhi si aprirono sulla nostra anima commossa, mostrando al loro interno un incendio turbinante e liquido. Il guscio di pietra si dissolse in un attimo lasciando libero il corpo di fiamma dello spirito che conteneva. La donna si sedette, distendendosi dopo il lungo sonno, fece guizzare più ardenti le lingue di fuoco che la avvolgevano.
Si alzò e cominciò a danzare lentamente per la stanza, intorno a noi, lambendoci di tanto in tanto, ma il suo fuoco non mi bruciava. Era un calore che riempiva, scioglieva ogni dolore, curava ogni ferita, riempiva ogni vuoto dell’animo con la sua calda sicurezza. Nessuna paura, nessun timore o dubbio solo accoglienza lenta, dolce che non aveva bisogno di permesso, come l’abbraccio di una madre, di un amico, di un amore. Danzando ci sfiorava il viso, le spalle, un invito a seguirla, a perdersi.
Andammo verso di lei e danzammo. Ci avvolgemmo a lei e il vento alimentò la fiamma che brillò più alta e vasta, e la fiamma alimentò il vento che si fece più forte e sostenuto. Le avvolgemmo intorno le braccia e le sue fiamme si avvilupparono nel loro bagliore. L’amore assoluto, incondizionato, etereo mi invase, pervaso da una passione immensa, incorporea, mentre mi perdevo in quel profondo sguardo ardente. Mi senti compreso come mai prima, accolto, senza dubbi ne domande, finalmente visto… mentre il vento in me si modellava, divorante e divorato, alle fiamme. Salimmo, ci mischiammo spingendoci e tirandoci, fino nel salone, saettando tra i mosaici neri del pavimento, sollevando spruzzi cristallini d’acqua che evaporava in nuvole nell’aria e volava via. Ci perdemmo l’uno nell’altra traboccanti di fiducia e fame, in un abbraccio infinito che avvolse tutto, facendo sparire tempo e spazio in un attimo perfetto e assoluto, completo.
E poi mi ritrovai a terra, di nuovo solo io, al centro del salone. Le due figure roteavano intorno a me, perse nella loro danza sinuosa, unendosi e separandosi, inseguendosi a vicenda per poi riabbracciarsi. Si spinsero cosi fino alla prima porta, spalancandola. Entrarono, spandendosi nella stanza e il giardino silente si animò. In un istante i germogli, i boccioli e tutta la natura contenuta si destò per sbocciare in un mare di colori e profumi mai visti prima. La chioma della donna albero si cosparse di una miriade di fiori bianchi dal profumo dolce e intenso, i rami si sollevarono protendendosi, come braccia spalancate pronte ad avvolgere e accogliere. Fuoco e vento le si fecero vicino e si incurvarono lungo il troco avvolgendosi ad esso, mischiandosi alle fronde alte, facendo cantare le foglie e li steli.
D’un tratto si fermarono e mi fissarono, come se solo allora si fossero resi conto della mia presenza, spettatore indiscreto. Sapevo però di essere stato io ad aver permesso il risveglio della cattedrale, in qualche modo a me sconosciuto era stata la mia umanità, il mio difetto a permettere che gli spiriti si ritrovassero. Protesero verso di me le braccia come un saluto, come a indicarmi la strada e poi, rumorosamente, le porte si richiusero e la fortezza torno silenziosa e immobile come quando vi ero entrato. Rimasi li, accasciato al suolo, attonito, apparentemente svuotato. Mi domandai se avessi sognato: umido, tremante, ma i miei abiti erano laceri e bruciacchiati e, nell’aria, ancora rimaneva traccia degli odori del giardino e del fuoco portati in giro da piccoli refoli di vento. Mi alzai in piedi e, dopo un ultimo sguardo alla grande sala riuscii al giorno e ripresi il mio cammino, ma con altri occhi per vedere il mondo e con la speranza di trovare la fuori ciò che avevo imparato nel mio viaggio, in una fortezza persa nel tempo.
“Questa è la mia storia traghettatore” disse il viaggiatore, “Spero che valga il passaggio, dove mi porterai allora?”.
La figura rimase a lungo silenziosa, poi da sotto il mantello fece uscire un lungo candido braccio e indicò all’uomo le acque del lago, il viaggiatore si sporse dal parapetto per osservare. Le acque erano calme poi, cominciarono a formarsi piccole onde concentriche intorno alla barca che andavano allargandosi lentamente, cerchi dentro altri cerchi che si susseguivano sulla superfice liscia. Guardò piu attentamente e, nella profondità vide lo scorrere del tempo, passato e futuro, dall’esterno poteva vedere che come i cerchi nell’acqua anche il tempo girava su se stesso senza inizio né fine in una danza eterna. Il tempo era una sfera che si ripeteva in se stessa all’infinito, infinite volte. Capì di aver già fatto quel percorso: innumerevoli volte era passato sotto quegli archi, attraverso quella valle, ogni volta compiendo scelte diverse, in un ciclo infinito.
“Perché? Perché tutto questo dimmelo?” disse supplicando la figura incappucciata, aggrappandosi alle sue vesti.
“Per imparare, per sentire, per comprendere la fonte” disse il barcaiolo con una calda e soave voce chiara, mentre gia la barca grattava il fondo del lago guadagnandosi l’approdo alla sponda.
“Sai dove andrai adesso vero viaggiatore?” gli disse dolcemente posando una candida mano sulla spalla.
“Si, ora lo so, dimenticherò tutto ma saprò cosa cercare”, la figura incappucciata annui e il viaggiatore scese con un balzo dalla barca per nascere nuovamente alla vita e alla luce e a nuova vita sapendo di dover cercare, sulla terra il fuoco su cui soffiare.
Antonio Libonati
Maggio 10, 2020Splendida opera di uno dei più grandi artisti caravaggeschi e di tutto il 600. Nato a Pisa da un artista fiorentino ma, noto a tutti con il cognome della madre, adottato anche dalla figlia, forse anche più famosa e apprezzata di lui… Ebbe una grande amicizia col Merisi, tanto che fu querelato con lui, ed altri due compagni nel 1603 dal pittore Giovanni Baglione, con l’accusa di aver diffuso un libello di poesie scurrili e diffamatorie ai suoi danni.