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Il meglio mesticatore di via dei Servi: ricordi sparsi

Il bandone è calato, il negozio è chiuso, ma tra le fessure della serranda i prodotti della Mesticheria fanno l’occhiolino al passante curioso. L’insegna è vecchia, modernariato di classe, la guardo e mi emoziono: “Mesticheria Tucci Mario”. Sono 53 anni che veglia sul negozio di mio padre, l’ha realizzata Del Fante, un famoso cartellonista i cui bozzetti sono conservati in un museo a Roma, gli hanno dedicato anche una mostra in cui hanno esposto le sue insegne più originali, tra cui quella di mio padre. Pare sia stato pubblicato un catalogo anche se nessuno è mai riuscito ad entrarne in possesso.

Mario è orgoglioso di veder campeggiare il suo nome e cognome in mezzo alla via che unisce due dei simboli della città: la cattedrale di S. Maria del Fiore, meglio conosciuta come Duomo, e la SS. Annunziata, la chiesa dei Servi di Maria a cui è anche dedicata la strada. E’ fiero di questo negozio tutto suo che già sognava a dodici anni quando ha iniziato a lavorare ai grandi magazzini Duilio 48 prima e nella Mesticheria Bosi in San Frediano subito dopo. E’ proprio da Bosi che ha respirato per la prima volta l’odore della mesticheria allo stato puro, quella combinazione di naftalina,detersivi, vernici, colla di coniglio e polvere che la rende inconfondibile e riconoscibile ad occhi chiusi.

Maci sono piatti verdi e bianchi di Empoli, il vetro soffiato di Murano, gli uccellini di Grottaglie, le casine di Vietri, e poi cineserie di ogni sorta; “Signora che la ole, qui ci s’ha dalla bistecca al pollo d’allevamento” per tutti i gusti e tutte le tasche.

Sono cresciuta in bottega, appena rientravo da scuola, verso le 17,era la mia tappa obbligatoria. Mi sedevo sul panchetto di legno dietro il bancone, babbo mi dava la schiacciata calda di Buti ( un forno storico di fronte al nostro negozio)e ascoltava attento il mio cicalio, il “e lui mi ha detto e io ho detto”perché non ho mai avuto il dono della sintesi e le otto ore di scuola diventavano venti nei miei racconti. Ogni volta che entrava qualcuno mi interrompevo e osservavo con quanta maestria mio padre esaltava i suoi prodotti e “serviva il cliente ma non faceva il servo” come ha sempre tenuto a precisare. Attraverso le sue parole ricostruivo le storie delle porcellane pregiate che stava vendendo: erano come eroi di altri tempi, avevano percorso strade, attraversato monti e fiumi per arrivare nella nostra bottega e allietare il cliente che fosse stato in grado di accaparrarsele.

E’ solo un metro e settanta mio padre, ma a me sembrava immenso. Mi esercitavo col nonno al gioco del “vendi e compra”, gli chiedevo di far finta di essere mio cliente, di chiedermi qualcosa,un barattolo di vernice, un piatto,una macchinetta da caffè, le saponette, che profumavano di fresco e pulito, avevano confezioni di carta colorate, con rose o culetti di bambini mentre io fingevo di fare la venditrice e mio padre intanto riempiva gli scaffali andando su e giù in cantina

Ho sentito decine di volte spiegare l’etimologia della parola mesticheria: “lei lo sa signorina che vuol dire? Viene dalla mestichina, la spatola, che serviva per mescolare i colori, ora non si usa più e ci s’ha solo a Firenze”. L’orgoglio è tanto, la dedizione ancora di più. Generazioni di studenti dell’Accademia si sono susseguite venendo a comprare i colori da mio padre, si capisce che sono al primo anno se chiedono “il marrone ombra di campanile” o il “rosa pancia di monaca”, è come un battesimo artistico, uno scherzo tramandato di generazione in generazione, quello di mandare le matricole a comprare colori che non esistono il cui nome è frutto della fantasia e della goliardia.

A casa dei miei genitori, chiusi negli armadi, mescolati tra i vestiti e le coperte, abbiamo tantissimi quadri perché mio padre diceva, a chi non poteva pagare i barattoli delle vernici per dipingere, “non ti preoccupare, vuol dire che poi tummidarai un quadro, cosi quando diventi famoso io ci faccio i soldi rivendendolo”. E quindi, l’aspirante artista di turno, omaggiava mio padre con disegni o dipinti di dubbio gusto e stile ma sicuramente frutto di impegno e dedizione.

Ogni volta che facciamo il cambio armadio, o cerchiamo coperte più pesanti o più leggere, dobbiamo spostare quelle cornici, che contengono, paesaggi, ritratti, macchie di colore, ma soprattutto sogni, mentre mia madre, meno poetica e molto più pragmatica di me dice” questa l’è colpa del tu babbo, oh che ci si fa con tutto questo ciarpame che occupa così tanto posto, un sarebbe meglio portarlo al conto vendita o al cassonetto?”.Puntualmente però vengono riposti in fondo all’armadio, perché molti dei ragazzi che hanno realizzato queste opere, li ha visti crescere, ha festeggiato con loro i traguardi raggiunti e tante volte li ha visti tornare, con moglie e figli a seguito perché ci tenevano a presentare loro il vecchio mesticatore.

Quegli incontri sono un vero e proprio salto nel passato durante i quali mio padre si illumina, parla a ruota libera, raccontando aneddoti e riuscendo, quasi sempre, a strappare una risata a chi quelle esperienze non le ha vissute direttamente e vede il proprio padre o marito sotto una luce diversa.

Se sono presente, durante queste “rimpatriate” mio padre mi presenta con un piglio solenne: questa è mia figlia. Un ruolo, uno stato, un marchio di fabbrica, che da adolescente mi bruciava e infastidiva come la marcatura del bestiame sulla pelle degli animali di allevamento, mentre

adesso è la prima cosa che anche io dico quando mi presento perché la vivo come un segno distintivo che mi fa sentire parte di qualcosa come se fosse un valore aggiunto.

Durante tutta la mia adolescenza ho vissuto la Mesticheria come la viveva mia madre, un’amante contro la quale non si può combattere. Mio padre non ha nessun vizio, non fuma più per problemi di salute, è sempre a dieta, non beve e non gioca a carte, nessuno sport, l’unico vero interesse era ed è la mesticheria e il mondo che la circonda.

Ogni domenica, per stare tutti insieme, lo seguivamo alle fiere o ai magazzini all’ingrosso sparsi su tutto il territorio nazionale: ci spacciava come gita famigliare una giornata da trascorrere in qualche capannone a fare acquisti con pranzo offerto dalla ditta e tavolata di colleghi mesticatori provenienti da tutte le provincie Toscane.

Noi figli condividevamo la noia ma nessuno era pronto ad ammetterlo, preferivamo tutti vantarci delle nostre attività che diventavano quasi mitiche; ho raccontato talmente tante volte che Bud Spencer aveva fatto acquisti da noi da crederci pure io.

Oggi rimiro quell’insegna,quella bottega a cui devo tanto e guardo quell’uomo col volto rugoso, le dita delle mani piegate dall’artrosi, che tutte le mattine si alza e tira su il bandone, spolvera le tazze, riempie gli scaffali e spero di avere in me anche solo un briciolo del suo amore e della sua passione per il lavoro e la vita che si è scelto.

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